l'éclat

 

 

  Israele e anarchia

EDITORIA FRANCIA. GERSHOM SCHOLEM, SCRITTI POLITICI.

Di Andrea Cavalletti

In “Alias” Supplemento settimanale de “Il Manifesto”, anno 7 - n. 29 (311), sabato 17 luglio 2004

   

«Da un punto di vista strettamente umano, credo alla durata “eterna” dell'antisemitismo: sebbene assai intelligenti, le analisi dei suoi fondamenti contemporanei non impediscono che esso possa riapparire in ancor nuove configurazioni. […] Il problema dello Stato mi è del tutto indifferente, poiché non penso che il rinnovamento del popolo ebraico dipenda dalla questione della sua organizzazione politica, ma piuttosto dalla sua organizzazione sociale. La mia fede politica – se ve n'è una – è anarchica». Scriveva così Gershom Scholem nel gennaio 1946 ad Hannah Arendt, in risposta al suo articolo Ripensare il sionismo. Proprio i celebri testi arendtiani raccolti in Italia in Ebraismo e modernità possono essere ora riletti, e composti dialetticamente con quelli di Scholem appena riuniti dalle molto meritevoli Éditions de l'éclat in Le prix d'Israël. Écrits politiques 1916-1974 (curati e presentati da Patricia Farazzi e Michel Valensi, pp.173, ¤ 22).
Quando a metà settembre del 1923 il ventiseienne Scholem salpa dal porto di Trieste col suo amico Fritz Goitein verso la Palestina del Mandato inglese, non solo ha già compiuto da tempo – in modo diverso e insieme allo stesso modo del fratello comunista Werner - una rottura irrevocabile con l'ambiente paterno, quello della borghesia ebraica assimilata di Berlino, ma ha già assunto, con la tesi di dottorato sul Sefer ha-Bahir, una chiara quanto inedita fisionomia di storico della quabbalah; ha intrapreso ormai da dieci anni lo studio della Lingua Santa, ha alle spalle una altrettanto lunga militanza sionista, e, del tutto disilluso sulle possibilità dell'ebraismo tedesco («la formula del “Deutsch-Judentum” dice di più della sua traduzione»), ha avuto per questo, nel 1922, un drammatico dissidio con Franz Rosenzweig.
Fedele al proprio motto «non ho una biografia, ho soltanto una bibliografia», lo stesso Scholem ha d'altra parte narrato gli anni della sua formazione in Da Berlino a Gerusalemme – il libro di «ricordi giovanili» che Einaudi, dopo aver tradotto nel 1988 quella tedesca più breve, propone oggi (con una postfazione di Giulio Busi, pp. 281, ¤ 21) nella versione più ampia, pubblicata in ebraico nel 1982. Anche rispetto a quelle memorie assai note, Le prix d'Israël costituisce tuttavia un documento decisivo. Perché? Poiché risponde alla domanda: cosa significava “sionismo” per Scholem? - domanda che tocca la storia stessa del sionismo, risposta che si prolunga in altre domande, sugli esiti di quel movimento e sulla direzione della loro critica.
Non era, quello di Scholem, il «romanticismo tedesco rivestito di orpelli sionisti» che animava i movimenti giovanili ebraico-tedeschi, ma un sionismo inseparabile da forti connotazioni di “anarchismo asociale”, ed inteso innanzitutto come estraneità dichiarata alle cause nazionali, e dunque alla guerra. Di qui l'accusa di antipatriottismo, la minaccia di espulsione dal liceo, nel 1915, e la risposta immediata e coerente: “vogliamo tracciare una frontiera tra l'Europa e la Giudea: il mio pensiero non è il vostro, la mia strada non è la vostra”. Non si tratta solo di un confine interiore: la sua posizione esige l'emigrazione, e trasforma la vita ormai impossibile in Germania in una vita in piena coscienza provvisoria, in un più o meno lungo preparativo alla partenza. “La Palestina è necessaria – egli scriverà all'amico Walter Benjamin in una lettera famosa del 1931 -, e questo mi basta”. Ma quella stessa lettera testimonia di una posizione minoritaria, di una radicale divergenza rispetto alla concezione già dominante nel Congresso Sionista, quella dell'ala dei revisionisti, che mirava alla “soluzione politica della questione ebraica”. Da parte sua a Gerusalemme Scholem aderiva al piccolo gruppo Brith Shalom (Alleanza per la pace), fondato nel '25 da Martin Buber, Leo Magnes e altre personalità della neonata Università Ebraica. Vicino più che al misticismo buberiano al sionismo spirituale di Achad Ha'am, egli concepiva la Palestina come centro di un rinnovamento della storia e della cultura, capace di dare nuova vita alla Diaspora senza bisogno, almeno fino agli eventi del 1933, di una immigrazione di massa. Egli reclamava, come esponente di Brith Shalom, l'uguaglianza dei diritti dei popoli arabo ed ebraico quale base immediata per una trattativa che avrebbe dovuto portare alla costituzione di uno stato bi-nazionale; e soprattutto rifiutava nettamente la confusione, propria del revisionismo, tra redenzione messianica ed esito politico-statuale. Sono i temi degli articoli scritti dal 1929 al '31, che non si possono leggere senza commozione, poiché tratteggiano una possibilità non illusoria e insieme mai incrociata dalla storia: mentre la ripresa critica di Achad Ha'am (di cui Scholem rifiuta la teoria sociale fondata sul possesso) attira gli attacchi furiosi dei revisionisti, Brith Shalom resta isolato, in conflitto anche con i socialisti del Mapaï ai quali rimprovera una politica araba reazionaria.
Ma sono questi, a ben vedere, temi già contenuti in nuce nella lettera a Rosenzweig del 1926 Sulla nostra lingua, pubblicata a suo tempo da Stéphane Moses e qui giustamente ripresa da Farazzi e Valensi. Si tratta di un testo molto affine alla filosofia del linguaggio di Benjamin, intriso però di motivi profetico-apocalittici. “Verrà il giorno in cui la lingua si rivolgerà contro quelli che la parlano”: l'ebraico dei sionisti politici, per quanto “avvilito e spettrale”, resta una lingua religiosa e la pretesa di una sua secolarizzazione in Israele sarà gravida di conseguenze. Benché coloro che hanno preteso di resuscitarla lo ignorino, questa lingua non smette infatti di evocare le potenze divine, sicché “Dio stesso, a sua volta, non resterà silenzioso”. La Lingua si ribellerà alla sua profanazione nel diritto, così come il messianico non si confonderà mai con un'entità nazionale, come il vero Sion non potrà e non dovrà coincidere per Scholem con la semplice realizzazione di uno stato.
Ma la domanda sull'essenza del sionismo custodisce in fondo quella sull'identità ebraica. Quando nel 1970, durante il governo di Golda Meïr, si apre alla Knesset il dibattito “Chi è ebreo?” che porterà a un cambiamento della “legge del ritorno”, Scholem farà sentire la propria voce: il governo non può stabilire per legge chi sia ebreo o no, poiché l'ebraismo è un organismo vivente in continua formazione che si autodetermina storicamente. Si potrebbe trarre da questa presa di posizione la seguente conseguenza: chiunque sia ebreo può appartenere allo stato di Israele, ma questo essere ebreo non è definibile una volta per tutte, e tantomeno dallo stato, che non può così decidere sulla cittadinanza. Il vero sionismo di Scholem, come “ritorno utopico alla propria storia”, non smette di essere un principio anarchico e, per usare una formula a lui tanto cara, critico-distruttivo. Non erano retoriche le frasi scritte nel diario il 4 gennaio 1915: «Il nostro obbiettivo principale: Rivoluzione! Rivoluzione totale! […] interna ed esterna. Contro la famiglia, la casa paterna… Ma soprattutto vogliamo la rivoluzione nell'ebraismo. Vogliamo rivoluzionare il sionismo e diffondere l'anarchia, ovvero l'assenza di dominio».